Recentemente gli Usa hanno aumentato i dazi su una serie di prodotti per contrastarne l’importazione dalla Cina e favorire lo sviluppo della propria industria.
In particolare sono stati quadruplicati i dazi sulle auto elettriche, aumentati quelli sull’acciaio e sull’alluminio dal 7,5 al 25 per cento, come anche quelli sulle batterie, mentre i dazi sui semiconduttori sono passati dal 25 al 50 per cento. Inoltre se ne applicheranno alcuni nella misura del 50 per cento anche ai pannelli solari e ad alcuni prodotti medici.
Ma i dazi doganali sono veramente efficaci per proteggere l’economia dello Stato che li introduce?
Guardando al passato, in realtà, si capisce come queste misure non siano state efficaci a contrastare crisi come quella del ’29, anzi addirittura ne amplificarono gli effetti. Nel 1930 il presidente Usa Herbert Hoover firmò un provvedimento che impose una serie di dazi sull’importazione. Tuttavia tale provvedimento comportò una serie di misure ritorsive da parte dei Paesi colpiti dall’introduzione dei dazi, che nel giro di pochi anni determinarono non solo una riduzione delle importazioni, ma anche un dimezzamento delle esportazioni, con catastrofiche conseguenze sul già precario mercato del lavoro.
Tuttavia va considerato che le imposte introdotte con gli ultimi provvedimenti dell’amministrazione Biden intervengono su un mercato con caratteristiche molto diverse rispetto alla situazione post crisi del 1929. Si tratta, infatti, di un mercato globalizzato con catene produttive fra loro integrate e le misure assunte sono destinate a colpire soltanto alcuni settori strategici. In generale mirano anche ad ottenere un effetto di reshoring, cioè di rientro a casa delle aziende che in precedenza avevano delocalizzato la propria attività in Paesi asiatici come Cina o Vietnam o in altri Stati dove i costi di produzioni sono molto contenuti.
Inoltre, non deve essere sottovalutato che tali provvedimenti rientrano anche nel contesto delle attività di difesa nazionale, in una situazione geopolitica in cui sono cominciate nuove guerre e permangono altre minacce di rottura di delicati equilibri internazionali. La politica di contenimento della Cina da parte degli Stati Uniti è uno dei capisaldi dei programmi di entrambi i candidati alle presidenziali Usa. Tuttavia questo modo di intendere il commercio, in funzione delle necessità di mantenimento di posizioni dominanti sul piano politico internazionale, è molto pericoloso. In primo luogo perché rischia di danneggiare le esportazioni, come avvenne nel corso degli anni Trenta, in seguito all’adozione di misure ritorsive contro i dazi statunitensi, e, quindi, di precludere l’accesso a nuovi mercati e clienti alle aziende Usa.
In secondo luogo, stante la forte interdipendenza dei mercati a livello globale, l’introduzione di pratiche protezionistiche potrebbe portare a un’accentuazione delle tensioni economiche fra Stati e al rischio di una crisi nel sistema commerciale internazionale. Un impegno per una ripresa economica e un rafforzamento delle relazioni internazionali potrebbe favorire una maggiore stabilità e prosperità globale e fornire un grosso aiuto per una ripresa del dialogo anche nell’ambito di situazioni di tensione geopolitica.
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Federica Coscia, Paolo Gambaro