I fondali marini rappresentano una grande opportunità per l’estrazione di materie prime come metalli e terre rare, anche se si tratta in gran parte di territori inesplorati, la cui conoscenza, anche dei relativi ecosistemi, è così contenuta, da far dire agli esperti che abbiamo più informazioni sulla superficie lunare che sul fondo degli oceani.
Molti attori internazionali hanno cominciato ad interessarsi allo sfruttamento dei fondali marini da diverse angolazioni. Alcuni Paesi, come la Cina, la Corea del Sud e anche la Norvegia hanno dichiarato, nel corso della riunione di qualche mese fa dell’Autorità internazionale per i fondali marini (ISA), di cui fanno parte 167 Nazioni, esclusi gli Usa, di essere favorevoli allo sfruttamento delle risorse provenienti dagli abissi oceanici. Non così, invece, per altri: la Commissione e il Parlamento europei, insieme a sette Stati membri dell’Ue (Spagna, Francia, Germania, Svezia, Irlanda, Finlandia e Portogallo), hanno richiesto una moratoria internazionale sull’estrazione in acque profonde sino a quando non saranno colmate le lacune scientifiche, motivo per cui sono già stati commissionati studi e progetti di ricerca in tema di estrazione di materie prime dalle acque profonde.
Gli ambientalisti sono schierati contro eventuali attività estrattive, anche per i rischi di danneggiamento o addirittura di distruzione dei delicati ecosistemi marini, sulla cui importanza per l’intero equilibrio terrestre, pur potendosi supporre, non è possibile fare una valutazione, vista la scarsità degli studi finora effettuati.
Peraltro, però, paradossalmente è proprio la transizione ecologica a spingere nel senso della corsa allo sfruttamento dei fondali oceanici per ricavarne risorse quali il cobalto, essenziale per le batterie al litio, o il nichel, necessario per molte delle tecnologie legate alle rinnovabili e per gli smartphone e, ancora, il rame, pilastro per la realizzazione di tutte le infrastrutture elettriche.
E’, quindi, già cominciata la competizione per ottenere licenze di estrazione nelle profondità oceaniche e per lo sviluppo di tecnologie adeguate a raggiungere l’obiettivo di una proficua attività estrattiva delle suddette materie prime. Naturalmente, la Cina si trova in pole position: da un lato per mantenere il suo ruolo di leader nel mercato delle risorse, quali le terre rare, per cui opera già quasi in regime di monopolio; dall’altro lato per mantenere il primato anche nell’ambito delle tecnologie relative all’energia rinnovabile, non solo per limitare la propria dipendenza da idrocarburi (con tutto ciò che ne consegue geostrategicamente), ma anche per poter vendere le tecnologie estrattive di profondità ad altri Paesi, quando la domanda mondiale per queste ultime sarà cresciuta.
Nonostante l’opposizione dell’UE e anche dei grandi marchi dell’industria tech e non solo, tra cui Google, Samsung, Bmw e Volvo, che hanno dichiarato che per le loro produzioni non acquisteranno minerali provenienti dai fondali oceanici, Paesi europei come il Belgio sono al lavoro per introdurre una legislazione che, a determinate condizioni, consenta lo sfruttamento dei fondali marini. Ma, a quanto sembra, il primato in questo campo è della Norvegia, che potrebbe diventare il primo Paese al mondo a estrarre metalli dal fondo dell’oceano: in autunno, infatti, sarà votata dal Parlamento norvegese la decisione di destinare 280mila km quadrati di fondali marini – un’area grande quasi quanto l’Italia – all’estrazione mineraria. Anche in questo caso, solo il tempo potrà dirci quale sia la giusta direzione da seguire e quali possano essere le conseguenze di una massiccia attività estrattiva che coinvolga le inesplorate profondità oceaniche, un tempo oscure custodi di peculiari forme di vita e di tragiche storie di naufragi.
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Federica Coscia, Paolo Gambaro