E se la carta di credito, piuttosto che consentirci di spendere senza pensieri nella società dei consumi, servisse per monitorare le nostre emissioni di CO2?
In alcuni Paesi queste carte di credito sono già una realtà. L’idea è quella attuata dall’Australia’s Commonwealth Bank, che ha avviato l’anno scorso il suo programma di monitoraggio dell’impatto carbonico delle spese effettuate dai suoi clienti, con cui chiede loro di pagare un extra se sforano rispetto al limite di 200 kg di anidride carbonica al mese.
La start up svedese Doconomy, nel 2020, usando il circuito Mastercard, ha creato Do Black, la prima carta di credito che segnala i consumi dell’utilizzatore e blocca le spese “esagerate”. Gli utenti che si mostrino rispettosi dell’ambiente ricevono anche premi economici, come rimborsi da negozi collegati al sistema.
Il progetto più recente è quello della carta di credito, sul circuito Visa, che dall’inizio dell’anno prossimo sarà emessa dalla banca cooperativa canadese Vancity, di Vancouver, in collaborazione con Ecolytiq, una delle aziende leader in Europa nella tecnologia di impegno per il clima, che ha fornito il primo Visa Carbon Counter in Canada. Si tratta in sostanza di incentivare i comportamenti sostenibili a livello ambientale, attraverso una decisione consapevole da parte dei consumatori. Peraltro, quando si tratti di una scelta personale di utilizzo di queste carte di credito da parte dei consumatori, non si pone nessun problema. Qualora, invece, l’idea sia quella di estenderne l’utilizzo a tutti, inizierebbero ad emergere possibili questioni di controllo delle azioni individuali. Tanto più a fronte di un’ipotizzata assegnazione a ciascuno di una quota di emissioni di anidride carbonica da non superare durante l’anno.
Un articolo su Nature, famosa rivista scientifica, propone infatti l’introduzione di PCA (Personal Carbon Allowances), cioè di quote carbonio che ogni persona è autorizzata a consumare, attraverso un utilizzo massiccio dell’intelligenza artificiale, in grado di rilevare i comportamenti personali di consumo, di viaggio e di alimentazione per calcolare le emissioni di carbonio e le potenziali conseguenze sulla salute. Occorre quindi chiedersi fino a che punto tale controllo sia da considerarsi compatibile con le scelte individuali. Ciò infatti potrebbe potenzialmente rischiare di rendere lo Stato eccessivamente presente nella vita degli individui, sull’esempio cinese.
La cultura ecologista con i suoi obiettivi di salvaguardia dell’ambiente naturale dovrà quindi confrontarsi direttamente con la libertà di movimento e le abitudini di consumo delle popolazioni dei Paesi sviluppati, in maniera anche molto più penetrante di quello che è accaduto finora, con l’obiettivo di educare le persone ad acquisti e abitudini più compatibili con le esigenze di protezione del nostro martoriato pianeta.
Crediti: Photo Steve Buissinne-Pixabay
Federica Coscia, Paolo Gambaro