Mentre si attende il 2025 perché il primo “netturbino” spaziale prenda servizio, come annunciato da Esa – l’Agenzia Spaziale Europea – nel dicembre scorso, di giorno in giorno si fa più preoccupante il problema dei detriti spaziali.
Si tratta di una quantità impressionante di rifiuti hi-tech composta da decine di migliaia di frammenti grandi più di un centimetro e decine di milioni di piccoli resti di satelliti e apparecchiature di dimensioni inferiori al centimetro.
E’ quindi evidente come il problema ecologico del recupero dei rifiuti non riguardi solo la superficie terrestre, ma coinvolga anche lo spazio circostante. Questo perché il numero dei lanci di satelliti e navicelle in orbita è andato crescendo in maniera esponenziale negli ultimi anni, tanto da raggiungere il record di 1200 lanci di satelliti nel 2020.
La maggior parte dei detriti ha origine proprio dal disuso di questi satelliti, sonde, pannelli solari, razzi, frammenti, parti di navicelle, addirittura strumenti e utensili andati perduti durante missioni spaziali, nonché da incidenti fra mezzi spaziali ed esplosioni. In alcuni casi si tratta di semplici scaglie di vernice.
Mentre alcuni frantumi si trovano in orbita bassa e riescono a rientrare in breve tempo nell’atmosfera terrestre (aumentando il numero dei rifiuti sparsi sulla superficie, quando non consumati completamente nell’impatto con l’atmosfera), altri invece sono troppo lontani e potrebbero restare in orbita per decenni, se non addirittura secoli.
I problemi da affrontare sono diversi: il primo è che un gruppo di ricercatori inglesi ha notato che l’espansione dell’atmosfera e la conseguente riduzione di densità (causata dall’inquinamento) rallenta il processo di rientro, perché l’azione di frenata è più bassa. Il secondo è che, oltre ad aumentare, il numero dei rottami in orbita rappresenta un vero e proprio pericolo per le missioni spaziali.
Va anche tenuto presente che persino il rientro incontrollato dei rottami spaziali non è auspicabile: ne sono stati esempio i detriti del razzo cinese ‘Long March 5B’, lanciatore da 21 tonnellate ricaduto sulla Terra lo scorso maggio nell’Oceano Indiano, che ha suscitato non poche preoccupazioni in vari paesi, vista la difficoltà di previsione della traiettoria e la pericolosità dei detriti in caduta libera.
Anche se negli ultimi tempi è tornata di moda l’idea – incentivata da Elon Musk per primo – del turismo spaziale, ciò si scontra con l’esigenza di riduzione del numero di satelliti e con la sensibilità sempre più green che va via diffondendosi e ampliandosi fino a coinvolgere proprio la questione dei rifiuti spaziali. Non solo: la bassa orbita – per intenderci quella compresa fra i duecento e mille chilometri dal suolo – è sempre più zona di interesse strategico militare, in quanto vi si trovano centinaia di satelliti necessari per le comunicazioni civili e militari, con conseguente aumento costante di mezzi spaziali presenti in quest’area e col rischio di collisioni e creazione di altri rottami.
L’Agenzia Spaziale Europea ha annunciato, quindi, la firma di un contratto da 86 milioni di euro con un gruppo industriale guidato dalla start-up svizzera ClearSpace per acquistare un servizio unico: la prima rimozione dall’orbita di un detrito spaziale. Il contratto prevede una prima missione “ClearSpace-1”, che tra 5 anni sarà lanciata per raccogliere e riportare indietro la parte superiore di un adattatore chiamato ‘Vespa’, utilizzato con il lanciatore Vega e mandato nello spazio nel 2013, attraverso un “camion per i rifiuti spaziali” robot appositamente progettato.
Ma le opportunità di investimento nello spazio per i prossimi anni sono numerosissime e riguardano sia le nuove scoperte e innovazioni tecnologiche per la conquista dello spazio, sia il recupero della sostenibilità tramite la gestione dei rifiuti spaziali, l’impiego di combustibili puliti, il ripensamento dell’impatto sociale delle missioni. A tal proposito, si pensi solo ai fondi Echiquier Space e BlackRock Global Funds – Future of Transport Fund, strettamente correlati a quest’ambito di investimento.
Crediti: Photo WikiImages – Pixabay
Federica Coscia, Paolo Gambaro