Nulla a che vedere con i diritti Lgbtq+, cui si associa ultimamente il simbolo dell’arcobaleno. La definizione riguarda invece le esplosioni nucleari ad alta quota, oltre i 50 km di altitudine, i cui effetti sarebbero comunque catastrofici dal punto di vista delle telecomunicazioni e non solo.
Il nome deriva dal fatto che le esplosioni nello spazio e ad altezze elevate tendono a manifestarsi come una nube sferica, quasi una sorta di supernova, che in seguito vengono distorte dal campo magnetico terrestre, per cui le particelle cariche risultanti dall’esplosione possono diffondersi negli emisferi e creare un chiarore aurorale che indusse un regista a definire queste detonazioni «le bombe arcobaleno».
In più occasioni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, si è evocata la minaccia nucleare. Diverse testate giornalistiche riportano come probabile l’utilizzo da parte della Russia della bomba arcobaleno, che – come effetto più immediato – comporterebbe il blackout elettrico, il blocco di smartphone, radio, televisori e automobili, in ultima analisi l’impossibilità di comunicazione.
Le conseguenze della bomba arcobaleno derivano dall’azione dei raggi gamma, i cui effetti sono stati studiati durante i test nucleari che nel tempo sono stati realizzati da Urss e Usa. Questi raggi sono altamente penetranti e interagiscono con la materia, irradiando e ionizzando ogni cosa, compresa l’aria circostante creando un campo elettromagnetico di chilometri di diametro.
Un attacco di questo tipo risulterebbe difficilmente controllabile. Il potenziale distruttivo di quest’arma si estende per un ambito molto vasto, inclusi i satelliti in orbita, dove difficilmente si potrebbe distinguere tra i propri e quelli dell’eventuale nemico.
Lo scenario creato da questa, come da altre potenziali esplosioni nucleari, è apocalittico. Rievoca descrizioni presenti in certi romanzi di fantascienza, che fanno sorgere paure ancestrali legate alla fine del mondo.
Ma ciò non toglie purtroppo che anche la produzione di armi nucleari sia un business. Sono quasi trenta le aziende recensite nel comparto della produzione nucleare a scopo bellico. E ulteriori undici sono le aziende attive nei settori dell’indotto. Le corporation americane dominano il mercato: la Huntington Ingalls Industries, in particolare, primeggia nella classifica con 28 miliardi di dollari di contratti all’attivo con lo Stato. A seguire un nome noto dell’industria bellica a stelle e strisce: la Lockheed Martin (oltre 25 miliardi).
E molte sono le istituzioni finanziarie coinvolte in questo ambito: la maggior parte appartengono alle nove potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, Israele), ma non solo. L’1,18% degli investimenti mondiali in aziende che si occupano del business degli armamenti nucleari provengono da istituti di credito italiani (per un confronto, dalla Russia proviene lo 0,45%). Si tratta di: UniCredit, Intesa Sanpaolo, Banco BPM, Cassa depositi e prestiti, BPER Banca, Banca Popolare di Sondrio, Mediobanca Banca di Credito Finanziario, Banca d’Italia, Anima e Credito Valtellinese, secondo il rapporto stilato da fonti indipendenti impegnate nella lotta alla proliferazione di armi nucleari, come la Ong PAX.
Mai come in questo momento è importante quindi scegliere l’investimento in fondi ESG, per non contribuire al business del nucleare e delle armi.
Crediti: Photo Anne-Pixabay
Federica Coscia, Paolo Gambaro