La Cina non è solo una superpotenza economica in lotta con gli Stati Uniti per il dominio dei commerci internazionali, ma ha da sempre anche ambizioni di espansione politica e militare. Questa considerazione trova riscontro nel varo, avvenuto pochi giorni fa, della nuova portaerei interamente progettata e costruita nel Paese del Dragone.
Simbolico anche il nome dato a questo gioiello della marina militare cinese: Fujian, la provincia che è di fronte all’isola di Taiwan. Nonostante il ritardo nella consegna, dovuto ai numerosi lockdown che hanno ripetutamente portato alla chiusura e al blocco di attività legate alla costruzione della nave, compresi i cantieri navali in cui è stata realizzata, la notizia ha riportato l’attenzione sulla produzione militare e bellica cinese e non solo, nell’ambito dell’economia internazionale.
Nell’ultimo anno con maggiore evidenza è aumentato di molto l’investimento pubblico di molti Paesi nelle spese militari, come nel caso dell’Italia, che le ha portate al 2% del pil.
L’industria delle armi dal 2010 al 2020, secondo stime del SIPRI, Stockholm International Peace Research Institute, ha fatturato circa 5000 miliardi di dollari. Si tratta di dati che sottolineano un aumento rispetto anche al decennio precedente, con una tendenza netta all’incremento vista soprattutto l’attuale situazione geopolitica ed il timore di possibili estensioni delle ostilità ad altri Paesi.
Quindi la guerra resta un grande business per molti, sia nel corso del conflitto, sia in un’ottica postbellica. Alcune recenti stime della Kyiv School of Economics hanno rivelato che le perdite dirette e indirette della guerra ammonterebbero circa a 600 miliardi di euro. E sono certamente destinate ad aumentare ulteriormente con il protrarsi degli scontri armati. A parte le questioni legate al finanziamento della ricostruzione delle città bombardate, è certo che le imprese che parteciperanno alla riparazione dei danni prodotti dalla guerra in Ucraina avranno a disposizione un mercato molto fiorente e ricavi elevatissimi.
Basti fare l’esempio del caso Afghanistan: per la sua ricostruzione gli Stati Uniti hanno speso anche 143,27 miliardi di dollari nei venti anni di campagna militare. Fondi che dal 2008 vengono monitorati da uno speciale ufficio di vigilanza creato ad hoc dal congresso americano. È il SIGAR, che ha sede ad Arlington in Virginia, e il compito dei suoi 185 dipendenti è molto semplice: evitare sprechi e frodi fiscali con i dollari dei contribuenti nella ricostruzione dell’Afghanistan. Un business da migliaia di progetti appaltati a privati, che ha coinvolto più di 771 aziende, con innumerevoli ricadute a livello economico. E’ facilmente prevedibile che una situazione analoga si crei anche in Ucraina, qualora dovesse cessare il conflitto, con numerose possibilità di guadagno anche per le imprese europee. Non resta dunque che prendere tristemente atto del fatto che la guerra oltre a mietere numerosissime vittime innocenti, resti purtroppo ancora un business molto ambito da ampi settori economici a livello mondiale.
Crediti: Photo Amber Clay – Pixabay
Federica Coscia, Paolo Gambaro