Mentre sono in corso studi sull’embrione di dinosauro che fa ripensare alle fantascientifiche immagini del celebre film Jurassic Park, lo scorso dicembre un collezionista italiano si è aggiudicato per 300 mila euro il fossile completo di un Hypacrosaurus, erbivoro di 70 milioni di anni fa, appartenente alla famiglia degli adrosauridi, dinosauri detti “dal becco d’anatra” perché avevano il muso schiacciato proprio come quello delle anatre.
Questo rettile di oltre quattro metri, ritrovato negli Usa, molto probabilmente non finirà in un museo, ma in un salotto. Si sta infatti diffondendo una nuova forma di collezionismo, che porta ad acquistare gli scheletri riassemblati di enormi animali preistorici come fossero vere e proprie opere d’arte, al pari di quadri o mobili antichi.
Non sono solo i grandi collezionisti ad investire, come nel caso della vendita del T-Rex Stan, che prende nome da Stan Sacrison che lo scoprì in South Dakota nel 1987, battuto lo scorso ottobre da Christie’s all’interno di un’asta di arte moderna e contemporanea all’incredibile cifra di 31,8 milioni di dollari, tanto per citare uno dei casi più famosi. Il mercato dei fossili, nato negli Stati Uniti, dove l’ingresso delle grandi Case d’Asta e la partecipazione come attori principali di Musei di Scienze Naturali di tutto il mondo ha dato un forte impulso iniziale, si è progressivamente esteso fino a ricomprendere anche piccoli investitori.
In Europa, il settore è cresciuto a partire dal 2006 circa e, dopo gli strascichi della crisi mondiale degli anni successivi al 2008, ha avuto una forte ripresa che non è stata interrotta dalla pandemia in corso. Anzi, negli ultimi tempi si sono diffuse anche le aste online, che, grazie anche ai prezzi accessibili – da mille o duemila euro per delle lastre di pesci fossili – hanno coinvolto un sempre maggior numero di investitori.
Secondo alcuni analisti del mercato, però, i veri dinosauri non sarebbero quei fossili che ora tanto interessano collezionisti e investitori privati, ma le banche di investimento più grandi del mondo, le prime dieci delle quali movimentano da sole gran parte della finanza globale. Essere dinosauri, in questo caso, significa perciò essere sistemici, con tutte le conseguenze che questo fatto comporta. Le banche di investimento sono fra i principali pilastri del sistema finanziario insieme alle banche centrali e alle controparti centrali. Difficile quindi non pensare che le vicende che le riguardano strettamente non contagino l’intero sistema finanziario, come nel caso della crisi innescata dal fallimento di Lehmann Brothers.
Al momento i primi dieci posti della classifica di questi giganti, secondo il report di S&P Global dell’aprile 2020, sono occupati dai seguenti players:
1 Cina – Industrial and Commercial Bank of China 4324,27
2 Cina – China Construction Bank 3653,11
3 Cina – Agricultural Bank of China 3572,98
4 Cina – Bank of China 3270,15
5 Giappone – Mitsubishi UFJ Financial Group 2892,97
6 Regno Unito – HSBC 2715,15
7 Stati Uniti – JPMorgan Chase 2687,38
8 Stati Uniti – Bank of America 2434,08
9 Francia – BNP Paribas 2429,26
10 Francia – Crédit Agricole 2256,72
In attesa di capire se anche le banche di investimento guardino con interesse ai fossili preistorici e al relativo mercato, resta certa una sola cosa: gli unici fossili di cui il mondo vorrebbe fare a meno – i combustibili – interessano ancora molto le case di gestione dei fondi comuni e il disinvestimento nel settore è lungo e complesso. Solo il tempo ci potrà dire se gli investimenti fossil free siano veramente un’alternativa praticabile su larga scala e, periodicamente, non riemerga – proprio come uno scheletro di dinosauro – il tema del petrolio e degli altri combustibili fossili nel mare magnum degli investimenti green ed ecosostenibili.
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Federica Coscia, Paolo Gambaro